Debolezza e forza
Se il nostro vangelo è ancora velato, è velato per […] gli increduli, dei quali il dio di questo mondo ha accecato le menti, affinché la luce del vangelo di Cristo, che è l'immagine di Dio, non risplenda loro. Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore e quanto a noi ci dichiariamo vostri servitori per amore di Gesù, perché il Dio che disse: “Splenda la luce fra le tenebre” è quello che risplendé nei nostri cuori, affinché noi facessimo brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che risplende nel volto di Gesù Cristo.
Ma noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché l'eccellenza di questa potenza sia di Dio e non da noi. Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; atterrati, ma non uccisi; portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo, poiché noi che viviamo, siamo sempre esposti alla morte per amore di Gesù, affinché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che la morte opera in noi, ma la vita in voi. Siccome abbiamo lo stesso spirito di fede, che è in quella parola della Scrittura: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo. (2 Corinzi 4,3-13)
L’apostolo Paolo è stato uno straordinario viaggiatore. Nel corso di tre grandi viaggi missionari, tra il 46 d.C. e il 57 d.C., ha attraversato il Libano, la Siria, la Turchia, è arrivato in Europa entrando in Grecia, ha visitato l’isola di Cipro, ha coperto distanze enormi, a piedi e a bordo di navi. Ha predicato soprattutto nelle sinagoghe, per portare alle comunità ebraiche una nuova interpretazione della legge antica, rivista alla luce di Gesù. Ha ingaggiato confronti polemici con i fedeli di divinità pagane, ha dibattuto ad Atene con i filosofi greci, e ha fondato molte comunità.
Con le comunità cristiane nate in seguito alla sua predicazione, e che di tanto in tanto è tornato a visitare, ha mantenuto un contatto epistolare. Attraverso quelle lettere, ha incoraggiato i credenti, ha risposto ai loro quesiti, a volte ha espresso rimproveri. Altre volte ha dovuto difendersi dalle accuse mosse contro di lui da altri predicatori che lo hanno criticato, hanno messo in dubbio la sua autorevolezza, lo hanno definito addirittura un falso apostolo.
La comunità cristiana di Corinto era modesta dal punto di vista del numero dei suoi membri, ma per altri aspetti era molto ricca. Era la comunità che vantava il maggior numero di apostoli: era stata fondata e visitata da Paolo, e più tardi vi avevano predicato anche Pietro, Apollo e altri ancora. Oltre alla ricchezza apostolica, la comunità aveva pure una grande ricchezza teologica e culturale: “Siete stati arricchiti […] in ogni dono di parola e in ogni conoscenza”, afferma Paolo nella sua prima lettera inviata alla comunità. I cristiani di Corinto conoscevano infine una straordinaria ricchezza di libertà, tanto da scegliere, come proprio motto: “Ogni cosa è lecita”.
In quel clima effervescente, a Corinto erano nate, all’interno della comunità, diverse correnti che si richiamavano ciascuna a un diverso predicatore. Così c’era una corrente che si dichiarava “di Paolo”, un’altra che si dichiarava “di Pietro”, un’altra ancora che si dichiarava “di Apollo”, a seconda di quale fosse il predicatore preferito. Già nella sua prima lettera ai Corinti, Paolo era intervenuto per cercare di riunire le diverse fazioni, ma evidentemente la situazione non era migliorata se ora – nella seconda lettera – deve tornare a ribadire quale sia il fondamento su cui si basa la chiesa. E se deve anche difendere la credibilità del suo messaggio.
Per rimettere ordine nella comunità di Corinto, Paolo ora afferma e ribadisce: “Noi non predichiamo noi stessi”. Non mette in primo piano sé stesso, la sua personalità, i suoi successi, non si presenta come una specie di guru, di leader carismatico capace di affascinare gli individui e le folle e trascinarli dietro a sé. Al contrario, preoccupato da questa possibilità mette subito le cose in chiaro: “Noi non predichiamo noi stessi”. Il compito che egli ha ricevuto non è di fare dei “paolini”, ma di fare dei cristiani, delle persone capaci di incontrare Dio nella persona di Gesù, e diventarne poi discepoli.
Quante volte, nella storia, la tentazione dei cristiani è stata quella di “predicare sé stessi”. Il cristianesimo ha lasciato un’impronta profonda in più di una civiltà, ha costruito le cattedrali e ispirato opere d’arte come la Cappella Sistina, ha prodotto capolavori della letteratura come la Divina Commedia di Dante, il Paradiso perduto di Milton i Fratelli Karamazov di Dostoevskij; ha consolato un grande numero di uomini e di donne, ha motivato infinite persone a fare cose nuove e rischiose.
E anche oggi, in questo avvio del ventunesimo secolo, dopo che il cristianesimo era stato dato per morto, che ne era stata predetta la fine, esso è presente, soprattutto al di fuori del continente europeo, come una straordinaria forza propulsiva. Ma proprio qui sta la grande tentazione: predicare noi stessi, presentarci al mondo come l'unica forza morale capace di sostenerlo nell'azione e di consolarlo nella sofferenza.
Questo ragionamento vale anche per la nostra situazione, vale anche nei nostri paesi, nell’Europa secolarizzata che sta voltando le spalle al cristianesimo. Noi rischiamo di cadere nella tentazione di cercare di opporci alla crisi delle chiese predicando noi stessi, parlando delle nostre istituzioni, dimenticando una cosa fondamentale: le chiese non devono parlare di sé stesse, ma di Gesù.
Per dire chi è Gesù, Paolo afferma: egli è l'immagine di Dio. Riprendendo quanto prescritto nei dieci comandamenti - che, come tutti sanno, vietano il culto delle immagini -, l’apostolo ribadisce: Dio non deve essere raffigurato mediante strumenti umani, perché egli stesso provvede a presentare la sua immagine al mondo. Nella prospettiva ebraica, l’immagine di Dio è il Messia; nella prospettiva cristiana, l’immagine è Gesù di Nazareth, riconosciuto come messia.
Non dobbiamo dunque stancarci di ricordare e raccontare la vita di Gesù e di esporre il suo insegnamento: da questa vicenda - dice l'apostolo Paolo - viene una luce paragonabile solo a quella apparsa nel primo giorno della creazione, quando Dio disse “la luce sia”, e la luce fu.
Dalla vita di Gesù, dalla sua morte, dalla sua risurrezione, viene una luce che illumina il nostro cammino e ci permette di vedere il mondo in una prospettiva nuova, una luce che ci libera dalle nostre catene, ci rialza e ci rimette in cammino.
Avere fede significa avere fiducia nella forza rigeneratrice di Gesù. In questa confidiamo e questa predichiamo.
E poi c'è anche un altro motivo per non “predicare noi stessi”, ed è la nostra fragilità, la precarietà in cui viviamo. Paolo ci paragona a dei vasi di terracotta. Forse l’apostolo ricorda la favola di Esopo che parla di vasi d'argilla e vasi di ferro: nell'urto, i vasi di ferro resistono e durano, mentre gli altri si rompono. Le chiese cristiane hanno spesso avuto la tentazione di essere o di diventare vasi di ferro: organizzazioni potenti e rispettate, capaci di competere con le potenze di questo mondo. E invece no: la priorità, per i cristiani, non deve essere quella di uscire dalla precarietà. Non è quella la nostra prima preoccupazione. Perché, come dice Paolo, è proprio in questa fragilità che si rivela la nostra comunione con Gesù, con la sua Passione, con la vittoria del mattino di Pasqua.
La priorità deve consistere nel cercare di camminare con fede, e di parlare con franchezza. Perché chi ha fede in Gesù non può fare a meno di raccontarlo a tutti.