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Perdere e ritrovare

"Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà in vita eterna”. (Giovanni 12,24-25)

Queste sono le due parole di Gesù, legate l'una all'altra, sulle quali soffermiamo la nostra attenzione. La prima si riferisce a Gesù. La seconda è rivolta direttamente a noi.

Cominciamo con l'immagine del chicco di grano. All'inizio della sequenza della Passione - che nel Vangelo di Giovanni occupa la metà del libro -, Gesù applica a sé stesso una legge che osserva nella natura: prima di poter rinascere e moltiplicarsi, il chicco di grano deve morire. Gesù conosce la vita del contadino e la campagna è spesso lo scenario della sua predicazione. Ecco perché sa vedere nei gigli del campo, nel volo dei passeri, nei ramoscelli degli alberi o nel colore del cielo parallelismi e parabole su Dio e sulla condizione umana.
Mentre sta per iniziare la festa di Pasqua, a Gerusalemme, Gesù applica a sé stesso l’immagine del chicco di grano che deve morire. Usa questa immagine per descrivere una fine che nessuno, in quel momento, è in grado di comprendere. Con questa immagine, presenta la propria morte come una necessità.

L'evangelista Giovanni scrive per una generazione cristiana non ancora molto distante dagli eventi e che si pone ancora una domanda assillante: perché il Messia doveva morire in questo modo, mentre i profeti di Israele dicono quasi unanimemente il contrario? Tutti in Israele concordano sul fatto che le profezie annunciano la venuta di un inviato di Dio. Che questo inviato possa essere Gesù, è una questione divisiva: alcuni lo ammettono, altri no. Ma che il Messia debba soffrire e morire come un comune bestemmiatore, ha colto tutti di sorpresa. Non rientra in nessuno schema conosciuto.
Un grande uomo non è forse qualcuno il cui successo è evidente a tutti? Se Gesù era davvero chi diceva di essere, avrebbe dovuto mostrare la sua forza invece di morire miseramente tra due briganti. A meno che non ci fosse uno scopo nascosto e superiore dietro la sua morte. E questo è ciò che viene suggerito dall'immagine del chicco di grano.

E se invece Gesù fosse scappato? Se avesse evitato la croce scomparendo dalla scena al momento giusto? Sarebbe stato facile: i suoi sostenitori lo avrebbero potuto nascondere. Sarebbe potuto sparire per un po’ di tempo, in attesa che le acque si calmassero. Ma il grano sarebbe rimasto solo, non sarebbe finito nella terra, e non avrebbe dato frutto. Il nome di Gesù di Nazareth non sarebbe stato ricordato. E noi oggi non saremmo qui: niente nuvola di testimoni, niente chiesa, niente fede, nessuna nuova speranza, nessuna ispirazione per l'umanità.
Ecco perché Cristo accetta la sua morte e, come afferma in questo brano, addirittura la sceglie. Questa pagina del Vangelo di Giovanni ci fa capire che Gesù ha una sorta di sovranità di fronte al suo tragico destino. È lui che decide. "La vita non mi viene tolta, la do io". Alla luce di questa determinazione, l'arresto, il processo, la condanna e la crocifissione non sembrano più sfortunati incidenti. Anzi, costituiscono un dono volontario di sé che è come un sigillo messo sulla sua parola, una firma di certificazione del suo testamento.
Una scelta del genere non è stata facile, non è stata priva di turbamenti interiori e di paure: “L'anima mia è turbata”, dirà Gesù, e ancora: “Padre, liberami da quest'ora”. Ma il vero coraggio non è l'assenza di paura. Il vero coraggio è la capacità di vincere la paura. È proprio per quest'ora che Gesù è venuto, come dice lui stesso. La volontà di non tirarsi indietro alla fine è più forte.

Parliamo ora dei frutti. Se un chicco di grano muore, porta molto frutto, si moltiplica. Questo frutto è direttamente collegato alla tomba vuota del mattino di Pasqua e siamo noi a raccoglierlo. Raccogliamo il frutto della speranza di fronte alla morte, che non è una caduta nel nulla ma un passaggio verso qualcos'altro. L'ultima parola della vita non è la morte, ma la vita infinita. Raccogliamo il frutto della fiducia in Dio, che ha manifestato la sua presenza anche nella morte del suo inviato. Raccogliamo il frutto di essere accettati da Dio così come siamo, senza condizioni. Dio ama così tanto l'umanità che ha voluto condividere la tragedia della nostra condizione per illuminarla con la sua luce. Tutti questi frutti sono il raccolto seminato dalla croce.

Ma noi non siamo destinatari passivi. Questi frutti ci impegnano, ci affidano un compito. Un compito che Gesù ci indica molto chiaramente: “Chi ama la propria vita la perderà e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà”.
A prima vista, queste parole sembrano dure, persino deprimenti, e sollevano obiezioni. Come possiamo odiare la vita che viene da Dio? Perché odiare questo mondo creato da Dio? In realtà, Gesù ci esorta non a odiare la nostra vita e questo mondo, bensì a coltivare il distacco.
Nelle sue parole, amare la propria vita in questo mondo significa costruire la propria casa sulla sabbia. Mettere fiducia, speranza e salvezza solo nell'essere umano, cercare la salvezza attraverso la scienza, l'economia, la politica o la guerra. Puntare tutto sui beni materiali, sul monopolio del mondo, sulla legge del più forte. Considerare il nostro ego come un assoluto. Amare la propria vita in questo modo significa dimenticare Dio e fare di noi stessi, del nostro interesse, il nostro idolo.

Intendiamoci, amare la propria vita non è di per sé una cosa negativa. Non lo è nemmeno amare questo mondo. Né lo è trovare gioia e felicità in esso. A condizione che il nostro modo di amare ricordi che siamo stranieri e viaggiatori qui sulla terra, che veniamo da altrove e che andiamo altrove. Apparteniamo a questo mondo, e allo stesso tempo non gli apparteniamo. Possiamo amarlo senza nasconderci che è transitorio.
Gesù ci dice: scegliete con cura le vostre priorità. Ricordate che di voi rimarrà soltanto ciò che avrete dato, niente di ciò che avete tenuto per voi. Fiorirà, di voi, ciò che avete dato agli altri. Rimarrà, di noi, ciò che abbiamo offerto. La vita che pensiamo di avere perso donandola ad altri, la ritroveremo. Ciò che avremo condiviso, sofferto, seminato con gli altri, fiorirà, germoglierà, e darà frutto. Chi perde la sua vita un giorno la ritroverà.

Foto: Tamas Tokos unsplash