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Una nuova umiltà

Quando furono vicini a Gerusalemme e furono giunti a Betfage, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: “Andate nella borgata che è di fronte a voi; subito troverete un'asina legata e un puledro con essa; scioglieteli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dice qualcosa, direte che il Signore ne ha bisogno e subito li manderà”. Questo avvenne affinché si adempisse la parola del profeta: «Dite alla figlia di Sion: 'Ecco, il tuo re viene a te, mansueto, e montato sopra un'asina, e un asinello, puledro d'asina'». I discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato; condussero l'asina e il puledro, vi misero sopra i loro mantelli e Gesù vi si pose a sedere. La maggior parte della folla stese i mantelli sulla via; altri tagliavano dei rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla gridava: “Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi!”. Essendo egli entrato in Gerusalemme, tutta la città fu messa in agitazione e si diceva: “Chi è costui?”. E le folle dicevano: “Questi è Gesù, il profeta che è da Nazaret di Galilea”. (Matteo 21,1-11)

Leggendo il racconto dell’entrata di Gesù a Gerusalemme, umile re in groppa a un asino, non possiamo non ricordare le parole da lui pronunciate qualche anno prima: «Beati i mansueti, perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5). Si tratta di parole che riecheggiano il Salmo 37, dove si dice che «gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace» (Salmo 37,11).

Il modo in cui Gesù entra in Gerusalemme riassume e realizza quell'affermazione. Innanzitutto, Gesù vuole adempiere la profezia di Zaccaria (9,9), secondo la quale il re messianico sarà mansueto e trionferà con la potenza dello Spirito, non con la forza delle armi. Egli ribadisce quella profezia con un gesto inequivocabile: per entrare in città non sceglie un cavallo, simbolo di guerra e di forza militare, bensì un asino, modesto animale da fatica. L’asino non serve a combattere, non è utile a togliere la vita agli altri. Serve a portare pesi, a fare modesti lavori agricoli. Sull’asino, Gesù è indifeso, disarmato.

Lo stile con cui Gesù entra a Gerusalemme significa che egli ha rinunciato al potere dato dalla forza e dalla prevaricazione: ha rinunciato al potere mondano per realizzare la potenza dell’amore. Il comportamento di Gesù chiarisce dunque il significato della sua missione. E chiarisce anche il senso della missione delle cristiane e dei cristiani nel mondo.

Se guardiamo alla storia del cristianesimo, possiamo purtroppo trovare molte prove del fatto che l’invito di Gesù a essere mansueti, umili, a seguire il suo esempio di re in groppa a un asino, è stato disatteso. Molte volte, cristiane e cristiani hanno preferito scegliere la via della forza e della violenza, piuttosto che quella dell’umiltà.
Ma possiamo anche trovare molte prove del fatto che l’invito di Gesù è stato seguito, messo in pratica, anche a costo di grandi sacrifici: gli anabattisti accettano di morire pur di non uccidere; i quaccheri rifiutano di levarsi il cappello davanti al re; nel Terzo Reich alcune migliaia di credenti preferiscono morire nei lager piuttosto che militare nella Wehrmacht; i militanti per i diritti civili degli afroamericani, discepoli di Martin Luther King, si oppongono con metodi nonviolenti alle cariche della polizia. E dunque possiamo dire che tra le virtù propagate nella storia del cristianesimo, l’umiltà non riveste l’ultimo posto in ordine di importanza.

Potremmo fermarci qui. E non sarebbe sbagliato. Ribadendo che la via dell’evangelo è la via dell’umiltà. Ma forse è necessaria qualche ulteriore riflessione. Perché oggi c’è chi si chiede se quella dell’umiltà sia ancora una via proponibile, e se l’insegnamento di un certo modello di umiltà non abbia prodotto anche dei guasti.

L’umiltà insegnava infatti ad accettare il proprio ruolo, a obbedire e a tacere. L’umile si riconosceva inferiore e non si ribellava. Solo la persona umile aveva un corretto rapporto con Dio e con tutti gli altri superiori di questa terra. La virtù dell’umiltà ha perciò portato spesso alla soggezione e all’accettazione della dipendenza. Le persone umili sono state le vittime preferite di tutti i potenti, in tutte le epoche, fino a oggi. L’umiltà è stata spesso utilizzata per spezzare ogni forma di resistenza, di opposizione, di critica. Nessuna meraviglia perciò se oggi l’umiltà sia difficile da accettare.

Che cosa fare di fronte a queste obiezioni? Decidiamo che quella dell’umiltà è una virtù da dimenticare, superare, abbandonare, consegnare ai nostalgici del passato, ai conservatori? O possiamo in qualche modo recuperarla? Possiamo riuscire, anche oggi, a trovare un atteggiamento che sia lontano dalle vecchie sicurezze presuntuose e oppressive, da un lato, e lontano anche dalla disperazione, dall’altro? E questa terza via, tra i due estremi, potrebbe forse essere quella di una nuova umiltà?

I tratti di questa moderna umiltà dovrebbero essere la capacità di sorridere di sé e degli altri, con l’indulgenza di un necessario distacco, e con una dose di sana ironia. Non avere fretta di giudicare, di attribuire voti di merito, premi per i successi e pene per i fallimenti. «Non giudicare» potrebbe essere il punto di partenza della nuova umiltà, un punto di partenza evangelico, ma spesso dimenticato dai cristiani. Essere umili fa rima allora con sorridere e con il coltivare l’ironia: non il sarcasmo, però, e nemmeno il disprezzo. Fa rima anche con ridere.
Si ride poco, ci si meraviglia di chi osa ridere. Ride l’ingenuo, il superficiale, il matto. Bisogna ridare al riso il suo valore di rottura, di comunicazione, di attribuzione di senso alle cose della vita. C’è il riso che risuona nel convento del Nome della rosa di Umberto Eco, quel riso che deve rimanere segreto perché altrimenti l’autorità perde il suo potere. E c’è il riso della folla che scopre la nudità dell’imperatore che sfila convinto di avere indosso vestiti preziosi.

Riso, sorriso, ironia, umiltà. Una certa sottile, profonda e umile ironia fa parte di una grande tradizione biblica: basti pensare a quella ebraica. Non a caso l’ebreo Primo Levi ha indicato nella «salvazione del riso» uno dei filoni della salvezza.

Nella foto: "Entrata di Gesù a Gerusalemme", Augusto Giacometti, vetrata, Chiesa riformata di Stampa (Wikipedia)