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fiducia

Ansia e fiducia

Perciò vi dico: non siate ansiosi per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può, con la sua preoccupazione, aggiungere una sola ora alla sua vita? E, riguardo al vestire, perché siete ansiosi? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora, se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: 'Che mangeremo? Che berremo?' o 'Di che ci vestiremo?'. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose e il vostro Padre celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in più. (Matteo 6, 24-33)

Espongo spesso, nelle bacheche delle nostre chiese, a Poschiavo e a Brusio, dei manifesti, dallo sfondo blu e le scritte in giallo, che riportano brevi citazioni bibliche. Si tratta di manifesti prodotti dall’agenzia di comunicazione “C”, dove “C” sta per “cristiana”. Quei manifesti li potete vedere in tutta la Svizzera, appesi ovunque, in italiano, tedesco e francese.
Uno di quei manifesti, che ho ripetutamente esposto, recita: “Il mio tempo è nelle tue mani”.

La frase è molto bella ed esprime una profonda fiducia. Mi ricorda un’altra espressione simile, che ho sentito pronunciare la prima volta da Margot Kässmann, già presidente della Chiesa evangelica in Germania: “Non si può cadere più in basso delle mani di Dio”. Detto in altre parole, anche se cadiamo, anche se inciampiamo, anche se ci troviamo in una situazione estremamente grave, difficile, o addirittura apparentemente disperata, Dio saprà e potrà comunque sostenerci.

Anni fa, un pensiero simile era stato espresso anche da un’amica, alla vigilia di un’operazione per l’asportazione di un tumore: “Sono nelle mani di Dio”. E aggiungeva: “Certo, anche nelle mani dei medici, ma anche i medici sono nelle mani di Dio”.
Potremmo concludere che si tratta di un tipo di fede un po’ ingenuo, certo, ma è indubbiamente una fede invidiabile per la calma che essa esprime, e per l’assenza di ansia.

E proprio di ansia, e dell’assenza di ansia, parla il testo dell’evangelista Matteo. Nel quale Gesù ci comanda, in modo assai perentorio, di non lasciarci affliggere dalle ansie per le necessità quotidiane.

Quello di Gesù, lo ripeto, risuona come un ordine. Ma come reagisce a un simile ordine una personalità fortemente ansiosa – e ce ne sono in giro molte –, che tende a preoccuparsi oggi anche per eventualità negative future che non è affatto detto che si verifichino: che cosa dovrebbe fare? Gesù in fondo ha ragione, lo dice anche la saggezza umana: se angustiarsi non serve a nulla, perché farlo? Ma basta dirselo e ripeterselo perché diventi una certezza dentro di noi?

L’ansia, infatti, non si annida tanto nella testa, quanto nella pancia e l’ansioso non ne viene a capo, anche se sa benissimo che non serve. Anzi, l’ordine di Gesù diviene un ulteriore fattore di angoscia: non essere ansioso! Suona un po’ come dire, a uno che è stato mollato dalla persona amata: devi essere sereno, o addirittura felice!

Secondo Gesù, però, molto prima di costituire un comando, le sue parole sono un annuncio di libertà. Egli parla come alla bambina che, in montagna, si trova di fronte a un passaggio che non riesce a superare: non avere paura, il papà ti prende in braccio. Senza l’assicurazione, il comando sarebbe inutile e anche crudele.
Nessun comando può cacciare l’ansia: questo può farlo solo la fiducia. La parola di Gesù non vuole porci di fronte a un ostacolo insormontabile, bensì intende donare fiducia.

Con questo però, il problema della persona ansiosa non è ancora superato. Nemmeno la fiducia, infatti, si può comandare. Soprattutto, la fiducia può essere mal riposta. Vale la pena fidarsi? Di Dio poi: e chi l’ha mai visto?

Secondo un’interpretazione classica, il successo dell’antico serpente – quello che compare nelle prime pagine della Bibbia, nel racconto del Giardino di Eden – consiste nel riuscire a incrinare la fiducia di Eva nei confronti di Dio. Sei proprio sicura? Non sarà per caso che questo Dio ti vuole tenere a distanza, vuole evitare che diventi come lui? E una volta che il seme del dubbio è piantato, cresce.
Supponiamo che ci sia davvero, questo Dio (cosa che, nella società nella quale viviamo, è tutto tranne che ovvia): tutti dicono che i suoi piani sono misteriosi. Di nuovo: c’è da fidarsi?

Chiediamoci, da che cosa nasce la fiducia in Dio? Una risposta semplice è questa: nasce dalla consuetudine con lui, in particolare nel culto, nella lettura biblica, nella preghiera. Questa visione delle cose può certo essere bollata come un discorso religioso che lascia il tempo che trova. Prova ne è il fatto che anche chi nutre una simile fiducia non è al riparo da delusioni, incidenti, malattie e morte.

Ma lasciatemi ricordarvi che può anche accadere che, nella relazione con Gesù, che appunto nasce dalla consuetudine quotidiana con la sua parola, le parole sulla possibilità di superare ogni ansia e angoscia diventino vere.
Può accadere che la voce che le pronuncia non sia solo quella della religione, che non sia solo quella della teologia, che non sia solo quella della chiesa, e che quella voce diventi certezza profonda, esistenziale, radicata dentro di noi.
Può accadere, per grazia soltanto, che sia la voce del Dio di Gesù Cristo a pronunciare il comando che in realtà è una promessa: Non siate in ansia per la vostra vita, non abbiate paura.

La calma, la forza, la fiducia

Così aveva detto il Signore, il Santo d'Israele: «Nel tornare a me e nello stare sereni sarà la vostra salvezza; nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza». Ma voi non avete voluto!
Avete detto: «No, noi galopperemo sui nostri cavalli!» E per questo galopperete! E: «Cavalcheremo su veloci destrieri!» E per questo quelli che v'inseguiranno saranno veloci! […]
Guai a quelli che scendono in Egitto in cerca di soccorso, hanno fiducia nei cavalli, confidano nei carri, perché sono numerosi, e nei cavalieri, perché sono molto potenti, ma non guardano al Santo d'Israele e non cercano il Signore! (Isaia 30,15-16. 31,1)

Il profeta Isaia scrive queste parole mentre il popolo d’Israele attraversa un momento di grave crisi. Un esercito sta avanzando, da oriente, e l’unica soluzione che il suo re, i suoi ufficiali, i suoi ministri sono in grado di indicare consiste in un’alleanza militare con un vicino potente: andiamo a chiedere aiuto all’Egitto – soldi e soldati, carri e cavalli.

Isaia critica quella politica di alleanze, perché ritiene che essa sia il frutto della mancanza di fede in Dio. Il profeta ribadisce che solo Dio, il quale conduce – a volte, è vero, misteriosamente – la storia e guida il suo popolo, è fonte affidabile di forza, mentre da tutti gli altri possibili alleati non c’è da aspettarsi altro che delusioni.

Pur se scritte molti secoli fa e certamente non riferite a noi, le parole di Isaia meritano di essere meditate anche oggi. Anche noi e le nostre chiese siamo confrontati con problemi gravi, per certi versi simili a quelli affrontati dal popolo d’Israele ai tempi del profeta.
Pensiamo alla responsabilità morale che pesa sulle chiese di fronte al conflitto in Ucraina. Pensiamo alle responsabilità che pesano sulle chiese di fronte alla tragedia che si sta consumando a Gaza e in Cisgiordania. Pensiamo alla responsabilità di annunciare l’evangelo a milioni di persone che non lo ascoltano, o lo fraintendono, o semplicemente lo rifiutano.

Dove prendere la forza per affrontare queste difficoltà? Come non sprofondare in un senso di rassegnata impotenza? Dove prendere l’autorità, o l’autorevolezza, di parlare al mondo e alla società di oggi?

La parola di Isaia vieta di cercare l’autorità mediante una politica di alleanze. Non dobbiamo appoggiarci su questa o quella potenza del mondo, su questa o quella ideologia, su questo o quel sistema economico, o tecnologico, o politico per dare peso a ciò che facciamo e diciamo.
Perché? Perché se lo facessimo saremmo costretti a seguire la sorte di quelle stesse potenze: molte menzogne, poca verità, e alla fine il tramonto e una sconfitta anche morale.

Se la forza non può venire da un’alleanza con una potenza esterna, dobbiamo cercarla forse dentro di noi? Alcuni sono fermamente convinti che la chiesa debba avere un’autorità umanamente riconoscibile e riconosciuta: denaro e prestigio, gerarchia e ubbidienza devono renderla “competitiva”. O, come si è ripetuto durante la pandemia, in particolare in ambito di lingua tedesca, la chiesa deve tornare a essere “systemrelevant”, vale a dire essere riconosciuta come un attore significativo, addirittura essenziale, per il funzionamento della società.
Secondo questo modo di vedere, la gloria di Dio deve in qualche modo rispecchiarsi nella sua forza: una chiesa che si organizza in modo tale da essere autorevole verso l’esterno, e autoritaria al suo interno.

Altri invece pensano che il segreto della forza della chiesa non vada cercato né nelle sue capacità organizzative, né nelle sue capacità intellettuali: la chiesa deve imporsi con la serietà del suo pensiero, con la sua capacità di ascolto e di dialogo, con il suo spirito di ricerca.
In realtà, ogni volta che la chiesa si guarda onestamente allo specchio, non scopre in sé né forza né sapienza, ma piuttosto contraddizioni e peccati. Se guarda sé stessa alla luce della parola di Dio, è costretta a ravvedersi, come dice il profeta, riferendo una parola di Dio: “Nel tornare a me starà la vostra salvezza”.

Una chiesa e un credente che si ravvedono, possono abbandonarsi con fiducia alla grazia e alla guida di Dio: questa è la vera fonte di forza. L’autorità, o l’autorevolezza, non dipende dalle alleanze strette dalla chiesa, né dalla sua organizzazione, né dalla sua sapienza: essa dipende dalla sua capacità di ravvedimento.
Chi è capace di ravvedimento trova il perdono, e insieme al perdono anche lo Spirito di Dio, che dona nuova forza.

Bisogna avere il coraggio di scendere nel profondo, per trovare questa forza; o, per usare le parole di Isaia: “Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”. È così che riceveremo anche autorevolezza, perché dal silenzio della chiesa penitente nasce la parola profetica: allora non esporremo più al mondo le nostre convinzioni, le nostre decisioni, ma una parola che viene da lontano, e opera nel profondo.

“Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”: più saremo semplici e più saremo forti, come quei “puri di cuore” di cui parlava Gesù. L’umanità ha bisogno, oggi più che mai, di uomini e donne dal cuore puro e dalla mente chiara. Questi hanno autorità e autorevolezza: gli altri hanno soltanto potere, come gli egiziani del tempo di Isaia.

Certo, molte volte la parola dei “puri di cuore” non è ascoltata, o viene riconosciuta solo con molto ritardo. Ma che importa? “Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”. Nessuna autentica testimonianza va mai perduta. Nessuna. Mai.