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Lovell

Il cielo, il creato, la fede

O Signore, Signore nostro,
quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra! […]
Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura?
Eppure, tu l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l'hai coronato di gloria e d'onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi:
pecore e buoi […] e anche le bestie selvatiche della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
tutto quel che percorre i sentieri dei mari.
O Signore, Signore nostro,
quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra! 
(Salmo 8)

Alcuni giorni fa è morto, all’età di 97 anni, l'astronauta James Lovell, che nel 1970 fu il comandante dell'Apollo 13. L'equipaggio di quella missione avrebbe dovuto essere il terzo a mettere piede sulla luna, ma l'esplosione di un serbatoio di ossigeno fece fallire l'obiettivo, e rischiò di compromettere il rientro sulla terra dell'astronave. Lovell passò alla storia per il drammatico SOS lanciato dallo spazio: “Houston, abbiamo un problema”.
La disavventura fu raccontata da Lovell in un libro da cui fu tratto il film “Apollo 13”, con Tom Hanks nei panni del comandante della missione.

La notizia della morte di Lovell ci riporta al clima di euforia e di forte emozione che si respirava sessanta e più anni fa, in tutto il mondo, all’inizio della corsa per la conquista dello spazio. Prima era stato messo in orbita un satellite russo, lo Sputnik. Poi in orbita erano andate una cagnetta, di nome Laika, e una scimmia. Infine, anche un uomo, Jurij Gagarin, compì un viaggio intorno alla Terra.
Intanto sul nostro pianeta si continuava a morire di fame, di ingiustizie e di guerre, ma queste cose sembravano passare in secondo piano di fronte all’avanzare del progresso: si cominciava addirittura a parlare di un viaggio sulla luna.

In quel frangente, un giornalista italiano, Carlo Falconi, dichiarò, in un articolo: “Il primo uomo a mettere piede sulla luna sarà probabilmente un ateo”. Falconi era convinto, come molti altri allora – e forse anche oggi – , che la scienza avrebbe reso gli uomini potenti, ma increduli.
Le cose andarono poi diversamente: il primo uomo che sbarcò sulla luna era un protestante, e si chiamava Neil Armstrong. Appena messo piede sulla luna, e dopo avere pronunciato la frase che tutti ricordano: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l'umanità”, depositò sulla superficie del nostro satellite naturale una placca d’oro su cui era inciso il testo del Salmo 8: “O Signore […] quando considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte […]”

La fede di Armstrong si basava, oltre che sul Salmo 8, anche sul poema della creazione del mondo contenuto all’inizio del libro biblico della Genesi. Per capirne l’importanza, dobbiamo ricordare che quel racconto – che narra la creazione del mondo, da parte di Dio, in sei giorni – è stato scritto in un momento difficile per il popolo di Israele, sconfitto e costretto all’esilio dalla grande potenza Babilonia.
I babilonesi, forti militarmente, economicamente e anche culturalmente, avevano elaborato alcuni miti, un po’ cupi, ma impressionanti, relativi alla nascita del mondo. Secondo quei miti, prima erano nati gli dèi, poi da una lotta tra gli dèi era nato questo mondo, nel quale le divinità continuavano a interferire a causa delle loro passioni.

Gli esiliati israeliti in Babilonia rifiutarono quei miti, e contrapposero a quelli il primo capitolo della Genesi: “Nel principio, Dio creò il celo e la terra”. Il mondo esiste – afferma il poema della Genesi – non perché gli dèi si sono messi a litigare o addirittura a uccidersi tra di loro, ma perché prima e sopra di esso c'è un'intelligenza che opera con una straordinaria e metodica regolarità.
La parola di fede che si esprime in Genesi 1 è la base di una visione razionale del mondo. Ed è proprio sulla base del primo capitolo della Genesi – e del Salmo 8 – che si è sviluppata la scienza moderna.

Ma lo sviluppo della scienza non ha impedito la nascita di nuovi miti, diversi da quelli babilonesi, ma non meno fuorvianti.
Il primo mito è che l'universo sia bello, buono e grande. Le galassie, gli anni luce, le meraviglie dell'infinitamente piccolo, gli atomi, gli elettroni, i quark, tutto ciò che di sovrumano si può osservare nell’universo è fonte di ammirazione, se non addirittura di adorazione. E non sono pochi quelli che ritengono di poter inviare delle preghiere nell’universo, nella speranza che in qualche modo dagli spazi siderali arrivi una risposta.
Ma da questa religione dell'universo non viene nessuna indicazione per la nostra vita: al massimo un amore un po’ spericolato per i risultati della scienza e della tecnica.

L'altro mito è esattamente l'opposto: l'universo è insensato, dominato com'è dal caso e dalla necessità. L'unica ancora di salvezza a cui l’umanità può aggrapparsi è la propria intelligenza, capace forse di ergersi come argine di fronte all’imprevedibilità.
Si tratta tuttavia di un mito che manca di speranza: del resto, ci penserà l'entropia a distruggere, alla fine, questo mondo al di fuori del quale, secondo alcuni, non esiste nulla.

La fede biblica respinge entrambi questi miti. Non si deve adorare il mondo perché esso è solo una creatura, al di là e al di sopra della quale c'è una intelligenza ordinatrice.
Ma non si può nemmeno accettare l'idea che l'universo sia nato per caso e vada avanti alla cieca. Dietro la complessa realtà dell'universo c'è un piano d’amore e di perdono, ma soprattutto di speranza: la speranza piantata in questo mondo da Cristo, vissuto, morto e risorto. In questo mondo noi viviamo in attesa della nostra resurrezione: l’avvento del giorno nel quale Dio regnerà nella pace e nella vita.

In questa attesa, e magari guardando il cielo, in queste notti d'agosto attraversate dalle scie delle Perseidi, possiamo ripetere la parola del salmista: “O Signore, Signore nostro, quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra!”