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Bibbia

Ansia e fiducia

Perciò vi dico: non siate ansiosi per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può, con la sua preoccupazione, aggiungere una sola ora alla sua vita? E, riguardo al vestire, perché siete ansiosi? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora, se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà egli molto più voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: 'Che mangeremo? Che berremo?' o 'Di che ci vestiremo?'. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose e il vostro Padre celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in più. (Matteo 6, 24-33)

Espongo spesso, nelle bacheche delle nostre chiese, a Poschiavo e a Brusio, dei manifesti, dallo sfondo blu e le scritte in giallo, che riportano brevi citazioni bibliche. Si tratta di manifesti prodotti dall’agenzia di comunicazione “C”, dove “C” sta per “cristiana”. Quei manifesti li potete vedere in tutta la Svizzera, appesi ovunque, in italiano, tedesco e francese.
Uno di quei manifesti, che ho ripetutamente esposto, recita: “Il mio tempo è nelle tue mani”.

La frase è molto bella ed esprime una profonda fiducia. Mi ricorda un’altra espressione simile, che ho sentito pronunciare la prima volta da Margot Kässmann, già presidente della Chiesa evangelica in Germania: “Non si può cadere più in basso delle mani di Dio”. Detto in altre parole, anche se cadiamo, anche se inciampiamo, anche se ci troviamo in una situazione estremamente grave, difficile, o addirittura apparentemente disperata, Dio saprà e potrà comunque sostenerci.

Anni fa, un pensiero simile era stato espresso anche da un’amica, alla vigilia di un’operazione per l’asportazione di un tumore: “Sono nelle mani di Dio”. E aggiungeva: “Certo, anche nelle mani dei medici, ma anche i medici sono nelle mani di Dio”.
Potremmo concludere che si tratta di un tipo di fede un po’ ingenuo, certo, ma è indubbiamente una fede invidiabile per la calma che essa esprime, e per l’assenza di ansia.

E proprio di ansia, e dell’assenza di ansia, parla il testo dell’evangelista Matteo. Nel quale Gesù ci comanda, in modo assai perentorio, di non lasciarci affliggere dalle ansie per le necessità quotidiane.

Quello di Gesù, lo ripeto, risuona come un ordine. Ma come reagisce a un simile ordine una personalità fortemente ansiosa – e ce ne sono in giro molte –, che tende a preoccuparsi oggi anche per eventualità negative future che non è affatto detto che si verifichino: che cosa dovrebbe fare? Gesù in fondo ha ragione, lo dice anche la saggezza umana: se angustiarsi non serve a nulla, perché farlo? Ma basta dirselo e ripeterselo perché diventi una certezza dentro di noi?

L’ansia, infatti, non si annida tanto nella testa, quanto nella pancia e l’ansioso non ne viene a capo, anche se sa benissimo che non serve. Anzi, l’ordine di Gesù diviene un ulteriore fattore di angoscia: non essere ansioso! Suona un po’ come dire, a uno che è stato mollato dalla persona amata: devi essere sereno, o addirittura felice!

Secondo Gesù, però, molto prima di costituire un comando, le sue parole sono un annuncio di libertà. Egli parla come alla bambina che, in montagna, si trova di fronte a un passaggio che non riesce a superare: non avere paura, il papà ti prende in braccio. Senza l’assicurazione, il comando sarebbe inutile e anche crudele.
Nessun comando può cacciare l’ansia: questo può farlo solo la fiducia. La parola di Gesù non vuole porci di fronte a un ostacolo insormontabile, bensì intende donare fiducia.

Con questo però, il problema della persona ansiosa non è ancora superato. Nemmeno la fiducia, infatti, si può comandare. Soprattutto, la fiducia può essere mal riposta. Vale la pena fidarsi? Di Dio poi: e chi l’ha mai visto?

Secondo un’interpretazione classica, il successo dell’antico serpente – quello che compare nelle prime pagine della Bibbia, nel racconto del Giardino di Eden – consiste nel riuscire a incrinare la fiducia di Eva nei confronti di Dio. Sei proprio sicura? Non sarà per caso che questo Dio ti vuole tenere a distanza, vuole evitare che diventi come lui? E una volta che il seme del dubbio è piantato, cresce.
Supponiamo che ci sia davvero, questo Dio (cosa che, nella società nella quale viviamo, è tutto tranne che ovvia): tutti dicono che i suoi piani sono misteriosi. Di nuovo: c’è da fidarsi?

Chiediamoci, da che cosa nasce la fiducia in Dio? Una risposta semplice è questa: nasce dalla consuetudine con lui, in particolare nel culto, nella lettura biblica, nella preghiera. Questa visione delle cose può certo essere bollata come un discorso religioso che lascia il tempo che trova. Prova ne è il fatto che anche chi nutre una simile fiducia non è al riparo da delusioni, incidenti, malattie e morte.

Ma lasciatemi ricordarvi che può anche accadere che, nella relazione con Gesù, che appunto nasce dalla consuetudine quotidiana con la sua parola, le parole sulla possibilità di superare ogni ansia e angoscia diventino vere.
Può accadere che la voce che le pronuncia non sia solo quella della religione, che non sia solo quella della teologia, che non sia solo quella della chiesa, e che quella voce diventi certezza profonda, esistenziale, radicata dentro di noi.
Può accadere, per grazia soltanto, che sia la voce del Dio di Gesù Cristo a pronunciare il comando che in realtà è una promessa: Non siate in ansia per la vostra vita, non abbiate paura.

Cercare, trovare e festeggiare

Tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. Ma i farisei e gli scribi mormoravano, dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, avendo cento pecore, se ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e non va dietro a quella perduta finché non la ritrova? E trovatala, tutto allegro se la mette sulle spalle; e giunto a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta". Vi dico che, allo stesso modo, ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento.
«Oppure, qual è la donna che, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende un lume e non spazza la casa e non cerca con cura finché non la ritrova? Quando l'ha trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: "Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta". Così, vi dico, v'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si ravvede» (Luca 15, 1-10)

Non vi capita mai di perdere le chiavi di casa? O di perdere le chiavi dell’auto? O di non ricordare più dove avete lasciato gli occhiali? E se vi capita, non siete presi da una grande agitazione, e non vi mettete a cercare ovunque per ritrovarli?

Proprio di una simile situazione parla anche questa parabola di Gesù: una donna ha perso una moneta e mette a soqquadro la casa per trovarla.
Capiamo la sua reazione: anche noi ci agitiamo quando perdiamo le chiavi di casa, o gli occhiali, o il portafoglio.
Quella donna che cerca in ogni angolo l’oggetto perduto è un’immagine della sollecitudine di Dio. E siamo noi la moneta che è andata perduta. Ritrovata la moneta, la donna è piena di gioia: chiama amiche e vicine di casa e fa festa. La parabola dice che la festa contagia anche il cielo.

Intorno alla moneta smarrita non c’è indifferenza o rassegnazione. Al contrario, la parabola dice che c’è speranza e c’è vita, dice che c’è una gran voglia di stringere di nuovo tra le mani la moneta perduta. La donna coinvolge nella sua ricerca tutto il vicinato: è una pagina evangelica piena di movimento!

Gesù, con la sua vita, ha annunciato che Dio non si rassegna alle monete perdute e, come la donna della parabola, si mette a cercarle. La vita di Gesù rimanda a Dio, al suo amore per l’umanità, e per l’umanità perduta in particolare. Sulle strade della Galilea fino a Gerusalemme, di chi Gesù si è preso cura se non delle pecore perdute, senza pastore?

Attenzione però a non deviare il senso della parabola, pensando subito alle monete perdute da cercare (o alle pecore smarrite da ricondurre sul buon sentiero). Questo è un punto delicato nella lettura della parabola: la moneta perduta non sono gli altri, che io dovrei andare a cercare, ma sono io, sei tu, cara ascoltatrice e caro ascoltatore. Se non la leggo in questo modo la parabola non ha nulla da dirmi e mi resterà tutto sommato estranea (o servirà ad alimentare il mio moralismo). Chi è la moneta smarrita? Sono io la moneta smarrita!

Non si tratta di recitare la parte della persona umiliata e disperata: è sufficiente che siamo fedeli al nostro essere per riconoscerci e identificarci con la moneta perduta.
Questa non è certo l’unica faccia della nostra vita, ma è e resta un tratto spesso presente nella nostra esistenza: anche noi, come tante altre persone, abbiamo i giorni del nostro smarrimento.

Un commentatore ha scritto: “Nella parabola il ‘regno di Dio’ si avvicina talmente all’uomo che questi prende coscienza della sua condizione di perduto e allo stesso tempo viene liberato dal peso di dover superare con le proprie forze il suo smarrimento. Egli deve piuttosto lasciarsi cercare e immedesimarsi con la gioia di Dio nel ritrovarlo”.

In molti giorni della nostra vita forse non possiamo e non sappiamo fare di più che lasciarci cercare e trovare. È già molto se, perduti o smarriti, non chiudiamo la porta a chi ci viene incontro e non evitiamo la mano di Dio che viene a sollevare da terra la moneta che era caduta.
La Bibbia non ci lancia mai un messaggio di passività, di delega assoluta a Dio per dispensarci dalle nostre responsabilità. Ma ci sono dei giorni e delle situazioni in cui siamo come quella moneta: non sappiamo cercare la mano che ci ritrovi, non siamo in grado di sollevarci dall’angolo buio in cui siamo finiti.

La buona notizia è che anche in questi casi la moneta non è perduta per sempre. Gesù ha insegnato, con la sua vita e con le sue parole, che non esiste condizione perduta da cui Dio non possa, non sappia o non voglia sollevarci e ritrovarci.

Dio contraddice il nostro sconforto

In quei giorni. Ezechiele disse: «La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?”. Io risposi: “Signore Dio, tu lo sai”.
Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti’. Perciò profetizza e annuncia loro: ‘Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (Ezechiele 37,1-3.11-14)

La scena descritta dal profeta Ezechiele è potente, è un’immagine che rimane scolpita nella memoria: la visione della valle delle ossa secche.

Per comprenderne il significato, dobbiamo collocarci nello scenario in cui Ezechiele riceve la sua rivelazione. Il popolo d’Israele è in esilio a Babilonia, lontano dalla propria terra, privato del tempio, delle sue istituzioni e della sua identità. È un popolo spezzato, affranto, che si sente abbandonato da Dio e senza futuro. La valle piena di ossa secche rappresenta, allora, la condizione di disperazione collettiva, il senso di morte e di fallimento che attraversa il cuore delle persone, delle famiglie, della comunità in esilio.

Il Signore conduce Ezechiele in mezzo alla valle, lo fa camminare tra le ossa, lo pone di fronte alla realtà così com’è, senza illusioni. E gli rivolge una domanda: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?” È una domanda che mette alla prova la fede. Ezechiele risponde con umiltà: “Signore Dio, tu lo sai”. Non osa dire di sì, perché la morte appare definitiva; non dice nemmeno di no, perché sa che Dio può tutto. La risposta di Ezechiele diventa allora una preghiera di affidamento.

Ma guardiamo più da vicino questo testo. Avete sicuramente notato il grande contrasto che c’è in questi versetti tra quello che dice il popolo d’Israele esiliato a Babilonia e quello che dice Dio per mezzo del suo profeta.
Il popolo dice: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti” (v. 11), cioè, siamo morti, morti dentro anche se vivi fuori, vivi in apparenza, ma in realtà morti.
Dio invece dice: “Io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete” (vv.12-13).

Si tratta di due discorsi diametralmente opposti. Dio dice il contrario di quello che diciamo noi, che spesso descriviamo la nostra situazione in modo simile a quanto fatto dagli esiliati in Babilonia. Ma Dio ci contraddice. E meno male che ci contraddice. Meno male che pensa e dice il contrario di quello che pensiamo e diciamo noi. Meno male che i pensieri di Dio non sono come i nostri pensieri e le sue vie non sono come le nostre vie (Isaia 55,8).
Dio contraddice il nostro sconforto, non ci permette di essere demoralizzati e di piangere su noi stessi. Che Dio ci contraddica è la nostra salvezza, è la luce nella nostra notte, la forza nella nostra debolezza. Aggrappiamoci dunque alla parola che Dio ci rivolge: “Voi rivivrete”. Questa è la parola che vale, la parola che conta.

Ma una domanda molto seria si pone: siamo veramente in grado di ascoltare questo messaggio? Abbiamo veramente il coraggio di esporci al vento di Dio che soffia sulle ossa secche, sulle speranze deluse, sul popolo sconfitto, sulla chiesa depressa? Siamo pronti a lasciarci contraddire da Dio? Siamo pronti a incontrare l’energia vitale di Dio, la sua presenza che risveglia, risana, restituisce dignità e futuro?

Il messaggio di Ezechiele non riguarda solo la rinascita storica d’Israele. Parla a ciascuno di noi, a ogni chiesa, a ogni comunità che attraversa stagioni di aridità, di crisi, di scoraggiamento. Quante situazioni nelle nostre famiglie, nel lavoro, nella società, sembrano senza speranza: relazioni spezzate, sogni infranti, giustizia che sembra lontana, guerre, solitudini. Quante volte diciamo: “Le nostre ossa sono aride, la nostra speranza è svanita, siamo perduti!”…

Non lo so, sorelle e fratelli, se siamo pronti. Eppure, sono certo che è di questo che abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di sentirci dire di nuovo che non esiste deserto che Dio non possa irrigare, né morte dalla quale non possa far scaturire vita. Abbiamo bisogno di essere riportati in vita, abbiamo bisogno che Dio risusciti la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore.

Risurrezione della fede. Un solo esempio. In questi ultimi decenni si è messa in dubbio l’onnipotenza di Dio. Si è detto: Dio non è onnipotente, perché se lo fosse non avrebbe permesso e non permetterebbe il male, la distruzione, lo sterminio.
L’argomento sembra inattaccabile. Non so che cosa ne pensate. Mi limito a chiedere: chi non crede più all’onnipotenza di Dio, crede almeno ancora alla sua potenza? Crede ancora, come credeva Abramo, “che Dio è potente da far risuscitare i morti” (Ebrei 11,19)?
E quando ripetiamo il Padre Nostro, quando diciamo: “Tuo è il regno, tua la potenza, tua la gloria”, che cosa diciamo? E crediamo in quello che stiamo dicendo? Ma allora, in che Dio crediamo: in un Dio potente, o in un Dio impotente?
Non è forse il caso di chiedere a Dio di risuscitare la nostra fede, così che crediamo nella sua potenza che fa rivivere i morti? Di affidarci a Dio che sa e può far rivivere anche ciò che appare senza vita?

Risurrezione della speranza. Un solo esempio. Che cosa speriamo veramente? Cose possibili, o cose impossibili? Se speriamo solo cose possibili, non otterremo neppure quelle. Non inganniamoci: la speranza cristiana è speranza in ciò che sembra impossibile. Ecco, dunque, che dobbiamo chiedere a Dio di risuscitare la nostra speranza, affinché osiamo sperare l’impossibile.

Risurrezione dell’amore. Anche qui, un solo esempio. Nel libro dell’Apocalisse, scritto nel primo secolo della nostra era, c’è una parola che è rivolta a una piccola comunità cristiana: “Io conosco le tue opere e la tua fatica e la tua costanza […] Ma ho questo contro di te – dice Gesù – che hai abbandonato il tuo primo amore (Apocalisse 2,2.4).
Qual è questo primo amore? È l’amore per Dio, che era il primo, ma poi è diventato il secondo, poi il terzo, poi il quarto, poi, forse, l’ultimo. Un po’ come spesso facciamo, o abbiamo fatto, anche noi, oggi.
Ecco, dunque, che dobbiamo chiedere a Dio di risuscitare il nostro amore per lui, affinché esso torni ad essere il primo nella nostra vita.

Ora, lo avrete certamente intuito: ammettere che abbiamo bisogno di essere contraddetti da Dio, di esporci al suo Spirito, è un’operazione rischiosa. C’è il rischio di incontrarlo davvero quel Dio che trasforma la vita dei singoli, la nostra vita, e la vita della chiesa, che risuscita le ossa secche. C’è il rischio che il vento di Dio soffi davvero su di noi e ci ridìa davvero la vita.
Ma è proprio per questo che siamo qui: per correre questo rischio, anzi per andargli incontro e immergerci in esso. Per essere almeno sfiorati dal suo vento, dal vento dello Spirito, che suscita e risuscita la fede, suscita e risuscita la speranza, suscita e risuscita l’amore.

Che il Signore ci accompagni nelle nostre valli e ci doni il coraggio di credere nella resurrezione ogni giorno, per noi stessi, per chi ci è affidato e per il mondo intero. Amen.

Il cielo, il creato, la fede

O Signore, Signore nostro,
quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra! […]
Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura?
Eppure, tu l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l'hai coronato di gloria e d'onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi:
pecore e buoi […] e anche le bestie selvatiche della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
tutto quel che percorre i sentieri dei mari.
O Signore, Signore nostro,
quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra! 
(Salmo 8)

Alcuni giorni fa è morto, all’età di 97 anni, l'astronauta James Lovell, che nel 1970 fu il comandante dell'Apollo 13. L'equipaggio di quella missione avrebbe dovuto essere il terzo a mettere piede sulla luna, ma l'esplosione di un serbatoio di ossigeno fece fallire l'obiettivo, e rischiò di compromettere il rientro sulla terra dell'astronave. Lovell passò alla storia per il drammatico SOS lanciato dallo spazio: “Houston, abbiamo un problema”.
La disavventura fu raccontata da Lovell in un libro da cui fu tratto il film “Apollo 13”, con Tom Hanks nei panni del comandante della missione.

La notizia della morte di Lovell ci riporta al clima di euforia e di forte emozione che si respirava sessanta e più anni fa, in tutto il mondo, all’inizio della corsa per la conquista dello spazio. Prima era stato messo in orbita un satellite russo, lo Sputnik. Poi in orbita erano andate una cagnetta, di nome Laika, e una scimmia. Infine, anche un uomo, Jurij Gagarin, compì un viaggio intorno alla Terra.
Intanto sul nostro pianeta si continuava a morire di fame, di ingiustizie e di guerre, ma queste cose sembravano passare in secondo piano di fronte all’avanzare del progresso: si cominciava addirittura a parlare di un viaggio sulla luna.

In quel frangente, un giornalista italiano, Carlo Falconi, dichiarò, in un articolo: “Il primo uomo a mettere piede sulla luna sarà probabilmente un ateo”. Falconi era convinto, come molti altri allora – e forse anche oggi – , che la scienza avrebbe reso gli uomini potenti, ma increduli.
Le cose andarono poi diversamente: il primo uomo che sbarcò sulla luna era un protestante, e si chiamava Neil Armstrong. Appena messo piede sulla luna, e dopo avere pronunciato la frase che tutti ricordano: “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l'umanità”, depositò sulla superficie del nostro satellite naturale una placca d’oro su cui era inciso il testo del Salmo 8: “O Signore […] quando considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte […]”

La fede di Armstrong si basava, oltre che sul Salmo 8, anche sul poema della creazione del mondo contenuto all’inizio del libro biblico della Genesi. Per capirne l’importanza, dobbiamo ricordare che quel racconto – che narra la creazione del mondo, da parte di Dio, in sei giorni – è stato scritto in un momento difficile per il popolo di Israele, sconfitto e costretto all’esilio dalla grande potenza Babilonia.
I babilonesi, forti militarmente, economicamente e anche culturalmente, avevano elaborato alcuni miti, un po’ cupi, ma impressionanti, relativi alla nascita del mondo. Secondo quei miti, prima erano nati gli dèi, poi da una lotta tra gli dèi era nato questo mondo, nel quale le divinità continuavano a interferire a causa delle loro passioni.

Gli esiliati israeliti in Babilonia rifiutarono quei miti, e contrapposero a quelli il primo capitolo della Genesi: “Nel principio, Dio creò il celo e la terra”. Il mondo esiste – afferma il poema della Genesi – non perché gli dèi si sono messi a litigare o addirittura a uccidersi tra di loro, ma perché prima e sopra di esso c'è un'intelligenza che opera con una straordinaria e metodica regolarità.
La parola di fede che si esprime in Genesi 1 è la base di una visione razionale del mondo. Ed è proprio sulla base del primo capitolo della Genesi – e del Salmo 8 – che si è sviluppata la scienza moderna.

Ma lo sviluppo della scienza non ha impedito la nascita di nuovi miti, diversi da quelli babilonesi, ma non meno fuorvianti.
Il primo mito è che l'universo sia bello, buono e grande. Le galassie, gli anni luce, le meraviglie dell'infinitamente piccolo, gli atomi, gli elettroni, i quark, tutto ciò che di sovrumano si può osservare nell’universo è fonte di ammirazione, se non addirittura di adorazione. E non sono pochi quelli che ritengono di poter inviare delle preghiere nell’universo, nella speranza che in qualche modo dagli spazi siderali arrivi una risposta.
Ma da questa religione dell'universo non viene nessuna indicazione per la nostra vita: al massimo un amore un po’ spericolato per i risultati della scienza e della tecnica.

L'altro mito è esattamente l'opposto: l'universo è insensato, dominato com'è dal caso e dalla necessità. L'unica ancora di salvezza a cui l’umanità può aggrapparsi è la propria intelligenza, capace forse di ergersi come argine di fronte all’imprevedibilità.
Si tratta tuttavia di un mito che manca di speranza: del resto, ci penserà l'entropia a distruggere, alla fine, questo mondo al di fuori del quale, secondo alcuni, non esiste nulla.

La fede biblica respinge entrambi questi miti. Non si deve adorare il mondo perché esso è solo una creatura, al di là e al di sopra della quale c'è una intelligenza ordinatrice.
Ma non si può nemmeno accettare l'idea che l'universo sia nato per caso e vada avanti alla cieca. Dietro la complessa realtà dell'universo c'è un piano d’amore e di perdono, ma soprattutto di speranza: la speranza piantata in questo mondo da Cristo, vissuto, morto e risorto. In questo mondo noi viviamo in attesa della nostra resurrezione: l’avvento del giorno nel quale Dio regnerà nella pace e nella vita.

In questa attesa, e magari guardando il cielo, in queste notti d'agosto attraversate dalle scie delle Perseidi, possiamo ripetere la parola del salmista: “O Signore, Signore nostro, quant'è magnifico il tuo nome in tutta la terra!”

L'amore è una lotta

Ora vi mostrerò una via, che è la via per eccellenza. Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho amore, divento un rame risonante o uno squillante cembalo. E quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da trasportare i monti, se non ho amore, non sono nulla. Anche se distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri e dessi il mio corpo a essere arso, se non ho amore, non mi gioverebbe a niente.
L'amore è paziente, è benigno; l'amore non invidia; l'amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s'inasprisce, non sospetta il male, non gode dell'ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.
L'amore non verrà mai meno. Quanto alle profezie, esse saranno abolite; quanto alle lingue, esse cesseranno; quanto alla conoscenza, essa sarà abolita, poiché noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo, ma, quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte sarà abolito. Quand'ero fanciullo, parlavo da fanciullo, pensavo da fanciullo, ragionavo da fanciullo, ma, quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da fanciullo. Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto.
Ora, dunque, queste tre cose durano: fede, speranza e amore, ma la più grande di esse è l'amore. (1 Corinzi 12,31-13,13)

“Ora vi insegno qual è la via migliore”, dice l’apostolo. E l’indicazione che egli ci dà è semplice: la via migliore è quella dell’amore.
Una vita ha senso e valore solo finché in essa c’è amore; viceversa, una vita non è niente, e non ha alcun senso e valore, se in essa non c’è amore.
Una vita ha tanto valore, quanto amore. Tutto il resto è secondario.

A confronto con l’amore, felicità e infelicità, povertà e ricchezza, orgoglio e vergogna, patria e terra straniera sono poca cosa. E che cos’è una vita piena di disciplina, di onore, di rispettabilità, a confronto di una vita nell’amore? E che cos’è una vita piena di religiosità, di morale, di sacrificio e di rinuncia, se non è una vita nell’amore?
Lo afferma con forza anche l’autore del Cantico dei Cantici (8,6): “Forte come la morte è l’amore”.

Qualcuno potrebbe obiettare che l’apostolo dice cose che già sapevamo! È vero, dire queste cose non è una novità. L’unica novità è farle.
Ebbene, non è un caso che l’apostolo parli dell’amore come di una via, cioè di un cammino da percorrere, non di un insegnamento da dare: in tutta la Bibbia non c’è mai l’invito a predicare l’amore, ma sempre e solo a camminare nell’amore. La novità non è l’amore predicato, ma l’amore praticato.

Ma c’è anche un altro aspetto sorprendente in questi primi versetti del capitolo 13, qualcosa di ancora più radicale. Paolo dice: “Se parlassi tutte le lingue... se conoscessi tutti i misteri... se avessi tutta la fede... se distribuissi tutti i miei averi... se non ho amore, non sono nulla”. Non dice: non ho nulla, ma: non sono nulla!
Questo ci dice l’apostolo: puoi avere tutto, ed essere nulla. È la più grande contraddizione che si possa immaginare: avere tutto ed essere nulla, perché questo tutto, che hai, poggia su questo nulla, che sei!

Ma andiamo avanti, e chiediamoci: che cosa significa amare? L’apostolo dà delle linee di risposta, che cerchiamo di mettere in luce.

Innanzitutto colpisce la lunga serie di negazioni. L’amore “non invidia, non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non sospetta il male, non gode dell’ingiustizia”.
Leggiamo e comprendiamo il testo con attenzione: Paolo non dice quello che l’amore non è, bensì quello che non fa. Amare significa infatti non fare tante cose. Subito pensiamo: Ma è troppo poco, amare significa anzitutto fare! No, amare significa anzitutto non fare certe cose.
L’amore non è solo slancio verso l’altro, è anche e prima di tutto controllo di sé; è una specie di opposizione a noi stessi, di lotta contro noi stessi. Per amare l’altro, devo anzitutto disciplinare me stesso. E a che cosa tende questa disciplina su sé stessi per poter amare l’altro? Tende in fondo a una cosa sola: a non strumentalizzare l’altro. Questa è la prima indicazione: amare significa non fare tutto ciò che strumentalizza l’altro. In termini positivi diremo: l’amore è l’accettazione radicale dell’altro, e il contrario dell’amore è la negazione dell’altro.

La seconda indicazione viene dalle affermazioni in positivo: l’amore “gioisce con la verità, soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa”. Qui ciò che colpisce è la varietà delle manifestazioni dell’amore. L’amore gioisce, l’amore soffre. L’amore crede, l’amore spera. L’amore è paziente, l’amore è impaziente. L’amore è benigno, l’amore è esigente. Sembrano termini perfino in opposizione tra loro.
Ciò che Paolo vuole sottolineare è una seconda indicazione relativa all’amore: l’amore ha mille nomi, il suo nome è sempre un altro. L’amore cambia nome, questa è la sua caratteristica fondamentale.
La debolezza del nostro amore è che non cambia mai nome. Si chiama forse pazienza, ma mai impazienza. Si chiama forse sofferenza, ma mai gioia. Si esprime come benevolenza, ma mai come intransigenza. I nostri amori sono deboli perché sono monotoni, ripetitivi, sempre uguali. Imparare ad amare significa imparare i molti nomi dell’amore.
L’amore non è né cieco né neutrale: sa distinguere la verità dalla menzogna, l’iniquità dal diritto, la libertà dall’oppressione, la giustizia dall’ingiustizia.
L’amore sopporta ogni cosa, ma non approva ogni cosa; è paziente e benigno, ma non è qualunquista. Secondo la situazione, l’amore sceglie il suo nome, ed è un nome di battaglia, perché su questa terra amare significa lottare.
Noi conosciamo l’amore come dono, come accoglienza e comprensione, ma conosciamo e pratichiamo pochissimo l’amore come lotta. È nel contesto della lotta che l’amore prende i suoi vari nomi di battaglia.
Dove c’è oppressione, l’amore si chiamerà resistenza. Dove c’è menzogna, si chiamerà verità. Dove c’è fame, il nome dell’amore sarà pane. Dove c’è esclusione, il nome dell’amore sarà comunione. Dove c’è solitudine, l’amore si chiamerà compagnia. Dove ci sono blocchi militari, l’amore si chiamerà disarmo.
Occorre lottare affinché l’amore non si appiattisca, non diventi monotono.

La terza indicazione scaturisce da una constatazione: i nostri amori vengono meno. La nostra vita è piena di amori finiti, dimenticati, abbandonati. Quanto è facile che i nostri amori vengano meno. Se l’apostolo pensasse a noi e ai nostri amori, non direbbe: “L’amore non verrà mai meno”.
L’apostolo dice questo perché pensa a Dio. L’amore non verrà mai meno perché Dio non verrà mai meno.
E qui diventa del tutto chiaro perché l’amore è più grande: perché Dio è più grande, e Dio non è fede, Dio non è neppure speranza, Dio è amore.
Ecco perché la via indicata da Paolo è la via per eccellenza, la via migliore: perché è la via di Dio.

Proprio in questo contesto l’apostolo introduce il discorso del bambino che diventa uomo. “Quando ero bambino, pensavo da bambino... Da quando sono un uomo ho smesso di agire così”. Il che vuol dire: è l’amore che ti fa crescere e ti fa diventare uomo.
È bello e significativo che Paolo dica “quando sono diventato uomo”, e non “quando sono diventato cristiano”. È un messaggio cristiano nella sostanza, ma laico nel linguaggio.
Dunque: finché non ami, non sei ancora divenuto un uomo. Solo l’amore ci rende umani. L’amore è la più grande forza nel combattimento per la nostra umanizzazione.

La calma, la forza, la fiducia

Così aveva detto il Signore, il Santo d'Israele: «Nel tornare a me e nello stare sereni sarà la vostra salvezza; nella calma e nella fiducia sarà la vostra forza». Ma voi non avete voluto!
Avete detto: «No, noi galopperemo sui nostri cavalli!» E per questo galopperete! E: «Cavalcheremo su veloci destrieri!» E per questo quelli che v'inseguiranno saranno veloci! […]
Guai a quelli che scendono in Egitto in cerca di soccorso, hanno fiducia nei cavalli, confidano nei carri, perché sono numerosi, e nei cavalieri, perché sono molto potenti, ma non guardano al Santo d'Israele e non cercano il Signore! (Isaia 30,15-16. 31,1)

Il profeta Isaia scrive queste parole mentre il popolo d’Israele attraversa un momento di grave crisi. Un esercito sta avanzando, da oriente, e l’unica soluzione che il suo re, i suoi ufficiali, i suoi ministri sono in grado di indicare consiste in un’alleanza militare con un vicino potente: andiamo a chiedere aiuto all’Egitto – soldi e soldati, carri e cavalli.

Isaia critica quella politica di alleanze, perché ritiene che essa sia il frutto della mancanza di fede in Dio. Il profeta ribadisce che solo Dio, il quale conduce – a volte, è vero, misteriosamente – la storia e guida il suo popolo, è fonte affidabile di forza, mentre da tutti gli altri possibili alleati non c’è da aspettarsi altro che delusioni.

Pur se scritte molti secoli fa e certamente non riferite a noi, le parole di Isaia meritano di essere meditate anche oggi. Anche noi e le nostre chiese siamo confrontati con problemi gravi, per certi versi simili a quelli affrontati dal popolo d’Israele ai tempi del profeta.
Pensiamo alla responsabilità morale che pesa sulle chiese di fronte al conflitto in Ucraina. Pensiamo alle responsabilità che pesano sulle chiese di fronte alla tragedia che si sta consumando a Gaza e in Cisgiordania. Pensiamo alla responsabilità di annunciare l’evangelo a milioni di persone che non lo ascoltano, o lo fraintendono, o semplicemente lo rifiutano.

Dove prendere la forza per affrontare queste difficoltà? Come non sprofondare in un senso di rassegnata impotenza? Dove prendere l’autorità, o l’autorevolezza, di parlare al mondo e alla società di oggi?

La parola di Isaia vieta di cercare l’autorità mediante una politica di alleanze. Non dobbiamo appoggiarci su questa o quella potenza del mondo, su questa o quella ideologia, su questo o quel sistema economico, o tecnologico, o politico per dare peso a ciò che facciamo e diciamo.
Perché? Perché se lo facessimo saremmo costretti a seguire la sorte di quelle stesse potenze: molte menzogne, poca verità, e alla fine il tramonto e una sconfitta anche morale.

Se la forza non può venire da un’alleanza con una potenza esterna, dobbiamo cercarla forse dentro di noi? Alcuni sono fermamente convinti che la chiesa debba avere un’autorità umanamente riconoscibile e riconosciuta: denaro e prestigio, gerarchia e ubbidienza devono renderla “competitiva”. O, come si è ripetuto durante la pandemia, in particolare in ambito di lingua tedesca, la chiesa deve tornare a essere “systemrelevant”, vale a dire essere riconosciuta come un attore significativo, addirittura essenziale, per il funzionamento della società.
Secondo questo modo di vedere, la gloria di Dio deve in qualche modo rispecchiarsi nella sua forza: una chiesa che si organizza in modo tale da essere autorevole verso l’esterno, e autoritaria al suo interno.

Altri invece pensano che il segreto della forza della chiesa non vada cercato né nelle sue capacità organizzative, né nelle sue capacità intellettuali: la chiesa deve imporsi con la serietà del suo pensiero, con la sua capacità di ascolto e di dialogo, con il suo spirito di ricerca.
In realtà, ogni volta che la chiesa si guarda onestamente allo specchio, non scopre in sé né forza né sapienza, ma piuttosto contraddizioni e peccati. Se guarda sé stessa alla luce della parola di Dio, è costretta a ravvedersi, come dice il profeta, riferendo una parola di Dio: “Nel tornare a me starà la vostra salvezza”.

Una chiesa e un credente che si ravvedono, possono abbandonarsi con fiducia alla grazia e alla guida di Dio: questa è la vera fonte di forza. L’autorità, o l’autorevolezza, non dipende dalle alleanze strette dalla chiesa, né dalla sua organizzazione, né dalla sua sapienza: essa dipende dalla sua capacità di ravvedimento.
Chi è capace di ravvedimento trova il perdono, e insieme al perdono anche lo Spirito di Dio, che dona nuova forza.

Bisogna avere il coraggio di scendere nel profondo, per trovare questa forza; o, per usare le parole di Isaia: “Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”. È così che riceveremo anche autorevolezza, perché dal silenzio della chiesa penitente nasce la parola profetica: allora non esporremo più al mondo le nostre convinzioni, le nostre decisioni, ma una parola che viene da lontano, e opera nel profondo.

“Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”: più saremo semplici e più saremo forti, come quei “puri di cuore” di cui parlava Gesù. L’umanità ha bisogno, oggi più che mai, di uomini e donne dal cuore puro e dalla mente chiara. Questi hanno autorità e autorevolezza: gli altri hanno soltanto potere, come gli egiziani del tempo di Isaia.

Certo, molte volte la parola dei “puri di cuore” non è ascoltata, o viene riconosciuta solo con molto ritardo. Ma che importa? “Nella calma e nella fiducia starà la vostra forza”. Nessuna autentica testimonianza va mai perduta. Nessuna. Mai.

La fede che cerchiamo

Gesù raccontò una parabola per insegnare ai discepoli che bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai. Disse: “C'era in città un giudice che non rispettava nessuno: né Dio né gli uomini. Nella stessa città viveva anche una vedova. Essa andava sempre da quel giudice e gli chiedeva: Fammi giustizia contro il mio avversario.
'Per un po' di tempo il giudice non volle intervenire, ma alla fine pensò: 'Di Dio non mi importa niente e degli uomini non mi curo: tuttavia farò giustizia a questa vedova perché mi dà ai nervi. Così non verrà più a stancarmi con le sue richieste''.
Poi il Signore continuò: 'Fate bene attenzione a ciò che ha detto quel giudice ingiusto. Se fa così lui, volete che Dio non faccia giustizia ai suoi figli che lo invocano giorno e notte? Tarderà ad aiutarli? Vi assicuro che Dio farà loro giustizia, e molto presto! Ma quando il Figlio dell'uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?”
(Luca 18,1-8)

La parabola termina con una domanda. Si tratta di un fatto piuttosto insolito: in genere le parabole non terminano con una domanda. E qui si tratta addirittura di una domanda posta da Dio.
Noi non siamo abituati al fatto che Dio ci ponga delle domande. Di solito siamo noi che poniamo delle domande a Dio. Nella Bibbia, tuttavia, Dio a volte pone delle domande all'essere umano.

Lo fa ad esempio in uno dei primi racconti del libro della Genesi, dopo che Caino ha ucciso suo fratello Abele. All’indomani di quel primo omicidio, Dio chiede a Caino: “Dove sei?”. In altre parole, Dio chiede all'essere umano dove si sia nascosto, dove stia fuggendo. Caino non vuole fare i conti con Dio, e non vuole fare i conti nemmeno con sé stesso, non vuole guardare in faccia la realtà.
Anche noi, a volte, come Caino, non vogliamo fare i conti con Dio, ma nemmeno con noi stessi.
La domanda che Dio pone a Caino è ripetuta, attraverso i secoli e i millenni, a tutta l'umanità. È una domanda che vuole porre fine alla nostra fuga, è una domanda che rimanda alla nostra responsabilità.

Un'altra domanda posta da Dio la troviamo nel libro di Giobbe, un uomo innocente sul quale la sorte si accanisce. Giobbe vorrebbe sapere il perché della sua sofferenza e perciò pone delle domande a Dio. Dio lo ascolta pazientemente, finché a un certo punto gli chiede: “Ma tu, dov'eri tu quando io fondavo la terra”?
È come se Dio volesse ricordare a Giobbe la differenza che c'è tra l'essere umano e Dio, tra il creatore e la creatura.
È una domanda che interpella anche noi, che abbiamo perso il senso della misura e il senso di ogni limite.
Noi, come singoli individui e come società, corriamo il pericolo di confondere l'essere umano con Dio, di non riconoscere più la differenza tra il bene e il male, di non sapere più distinguere la verità dalla menzogna, di non più vedere il confine che c'è tra la vita e la morte.

E poi c'è la domanda che viene posta, nel nostro testo, al termine della parabola di Gesù riportata da Luca: “Quando il figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra”?
Gesù non chiede se troverà religione o religioni, non chiede neppure se troverà la chiesa o le chiese, non chiede nemmeno se troverà amore (che forse sarebbe ciò che noi chiederemmo come prima cosa), non chiede se troverà la vita che Dio ha creato e che noi così spesso disprezziamo.
Non religione, dunque, non chiesa, non amore, non vita, e nemmeno – potremmo aggiungere – giustizia, pace, fraternità, solidarietà e così via. Gesù chiede se troverà fede.

Per Gesù la fede è centrale, addirittura più importante di tutte quelle altre cose. In questa parabola sembra riprendere quanto detto già dal profeta Isaia, e cioè che “senza fede non si può sussistere”.

Ora, Gesù è già venuto una volta sulla Terra, ha già cercato la fede. E che cosa ha trovato? Ha trovato, possiamo dire, la fede che non cercava. E non ha trovato invece la fede che cercava. Ha trovato tanta fede, fin troppa: il mondo è pieno di fedi. Ma non ha trovato la fede che lui cercava.

Ha trovato la fede di Caiafa, il quale credeva nella legge. La legge in cui Caiafa crede è la legge che respinge e condanna Gesù. Caiafa, sommo sacerdote, è infatti tra quelli che decidono di consegnarlo ai romani affinché lo eliminino.
Quella di Caiafa è fede nella legge, ma Gesù non ha insegnato l'amore per la legge, bensì la legge dell'amore.

Quando Gesù è venuto sulla Terra, ha trovato anche la fede di Qumran, cioè la fede di quel movimento religioso severo e integralista che viveva sulle rive del Mar Morto e di cui sono stati trovati gli scritti conservati in anfore sepolte nelle grotte. La fede di Qumran è una fede che divide il mondo in due: da un lato i figli della luce, dall'altro i figli delle tenebre.
Ma Gesù non ha insegnato una simile divisione. Gesù ha accolto pubblicani e peccatori, non ha predicato la guerra santa bensì l'evangelo della riconciliazione e del perdono.

Gesù ha trovato anche una terza fede, quando è venuto sulla Terra. Ha trovato la fede di Roma, la fede nella forza armata, la fede nel diritto, la fede nella forza della civiltà romana. È una fede molto diffusa anche nel nostro tempo, in cui il continente europeo è attraversato da appelli al riarmo, da proclami a favore dell'uso della forza, dal ricorso alla forza militare per piegare gli altri al proprio volere.
Ma Gesù non ha parlato della fede nella propria forza, bensì della fiducia nella forza che proviene da Dio.

Quando Gesù e venuto in questo mondo non ha trovato fede nemmeno tra i suoi. Ricorderete la sua amara constatazione: “Nessuno è profeta in patria”.
Gesù non ha trovato fede nemmeno a Gerusalemme, e infatti ha pianto sulla città e sulla sua incredulità.
Non ha trovato fede tra i suoi discepoli: non per nulla sul campanile di molte chiese è posto ancora oggi un gallo a ricordare il tradimento di Pietro, il quale non è stato capace di conservare la fede in Gesù.

E paradossalmente, Gesù ha trovato fede in un romano, un centurione, del quale ha detto: “In nessun altro ho trovato tanta fede come ho trovato in lui”.

Nel nostro mondo ci sono fedi granitiche, che non amano le domande. Sono fedi religiose, ma anche politiche, fedi tecniche, ma anche economiche, che pretendono di essere assolute.
Non sono il tipo di fede che Gesù cercava, perché queste fedi rendono gli uomini aggressivi, violenti e intolleranti. Sono fedi che non producono amore, ma odio, non pace, ma guerra, non vita, ma morte.
Gesù ha insegnato una fede che sa anche trasgredire, non solo obbedire. Gesù, infatti, trasgredisce la legge del sabato. Egli dice che il sabato è fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato. Non sempre la nostra fede è abbastanza coraggiosa da essere una fede che sa anche disobbedire. Troppe volte la nostra fede è una fede timida.

La domanda posta dalla parabola non è dunque, a ben vedere, se Gesù, quando tornerà, troverà fede, bensì quale fede troverà.

Possiamo dire qualcosa a proposito della fede che Gesù vorrebbe trovare? Sì, possiamo. Gesù vorrebbe trovare la fede della vedova della parabola. Una fede che non si rassegna all'ingiustizia, non accetta l'ingiustizia, non si arrende all'ingiustizia. Una fede che sa indignarsi e non dà tregua al potere arrogante.
E ancora, una fede che non ci rende freddi e insensibili, bensì vulnerabili perché sensibili al dolore altrui, alle necessità altrui, e alla parola di Dio. Quella fede non consiste solo in un sapere, in una conoscenza, ma anche e soprattutto in vulnerabilità e apertura.

Possiamo allora riformulare la domanda della parabola chiedendoci: “Quando il figlio dell'uomo tornerà, troverà chi gli apre la porta?”

La preghiera crea comunità

Pregate gli uni per gli altri (Giacomo 5,16)

Noi partecipiamo al culto, ciascuno con la testa e il cuore pieni dei propri pensieri e delle proprie preoccupazioni. Partecipiamo al culto, ma siamo una comunità convocata da Gesù? Siamo riuniti perché chiamati dal comune Signore? C’è tra noi un collegamento costituito dalla preghiera degli uni per gli altri? O prevale una certa indifferenza reciproca? O c’è quella cordialità semplicemente umana, data dalla consuetudine, magari dalla parentela, e che copre il fatto che ciascuno vive per conto suo, senza preoccuparsi del fratello e della sorella e senza preoccuparsi di portarne il peso? O prevale la critica, magari non aspra, ma che comunque deteriora i rapporti? C’è nella nostra comunità lo spirito della preghiera gli uni per gli altri, che è riflesso dell’amore di Cristo per noi, che può trasformare tutti i rapporti umani?

La preghiera è necessaria per metterci in grado di accogliere l’altro, anche se non ci piace, anche se è noioso, anche se ha idee e abitudini diverse dalle nostre, anche se è ancora incerto nella fede. La preghiera ci aiuta a non condannare, bensì a cercare di aiutare noi stessi, e gli altri, a superare i nostri difetti, a vincere i nostri peccati, a crescere nella fede.

Se si prega per un fratello o una sorella, non una volta, nello slancio di un momento, ma con perseveranza, non si può più parlare male di lui o di lei, o avere un atteggiamento sprezzante o anche semplicemente indifferente nei suoi confronti. Perfino il nostro modo di guardare, di dare la mano, di salutare l'altra persona, può trasformarsi se noi preghiamo per quell'uomo, o quella donna.

Ogni rapporto nella chiesa è falso se non è preceduto, accompagnato, seguito dalla preghiera. Non possiamo misurare, e forse neppure immaginare, quello che può operare una preghiera intensa, perseverante per un fratello, per una sorella: quello che può operare per loro e per la creazione di una comunità vivente, quanto può aiutare a superare antipatie, diffidenze, freddezze, incomprensioni.

Il fratello e la sorella non sono realmente presenti nella nostra vita se non sappiamo pregare per loro. Una comunità è una comunità viva e fraterna soltanto quando sa diventare una comunità di preghiera. Se preghiamo soltanto per noi, perché le nostre cose vadano bene, è segno che dobbiamo ancora imparare a pregare. Ed è segno che non siamo ancora, veramente, una comunità cristiana.

Ci sono persone, nella nostra comunità, che hanno un peso o dei pesi gravi sul cuore: ce ne siamo accorti, abbiamo pregato per loro? Ci sono delle persone nella nostra comunità che sono sole: ce ne siamo accorti, abbiamo pregato per loro? Ci sono persone che fanno parte della comunità, ma hanno dimenticato di avere questo legame. Le abbiamo seguite, le seguiamo con la nostra preghiera? Ci sono delle persone che sono indifferenti, ci ricordiamo di loro nella preghiera? Ci sono delle persone che si sono avvicinate alla chiesa e che invece di porte aperte si sono trovate di fronte a freddezza e diffidenza. Ci siamo preparati, nella preghiera, all’incontro con loro?

Che cos’è una comunità cristiana? Si possono dare molte risposte a questo interrogativo. Una risposta che forse non è formulata di frequente è questa: una comunità cristiana è una comunità di uomini e donne che hanno imparato a pregare gli uni per gli altri, che hanno scoperto nella preghiera il segreto per superare le loro divisioni umane, che hanno imparato tramite la preghiera a guardare oltre le apparenze, che grazie alla preghiera stabiliscono fra loro un’unità nuova e paradossale.

Una lettera di Cristo

Noi non siamo come quei molti che falsificano la parola di Dio, ma parliamo mossi da sincerità, da parte di Dio, in presenza di Dio, in Cristo.
Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione presso di voi o da voi?
Siete voi la nostra lettera, scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini, essendo evidente che voi siete una lettera di Cristo […] scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di carne.(2 Corinzi 2,17-3,3)

Uno dei più grandi scrittori del 20. secolo, Franz Kafka, ebreo, era un uomo che pensava spesso al mistero di Dio e al mistero dell'essere umano. Questo mistero, Kafka lo esprime ad esempio in un racconto intitolato “Il messaggio dell'imperatore”.
Lo scrittore immagina che l'essere umano di oggi – uomo o donna – sia come un antico cinese impiegato nei lavori di costruzione della Grande Muraglia. L’operaio cinese fatica, suda, patisce il caldo e il freddo, e non comprende il significato del proprio lavoro. Ma nella lontana Pechino c'è l'imperatore, e l’imperatore, che conosce tutto, sa.
L'imperatore gli ha inviato un messaggio: proprio a lui, piccolo cinese. Il messaggio non è ancora arrivato, ma l'imperatore lo ha inviato.
L’operaio continua a lavorare e nel frattempo spera che forse, un giorno, quel messaggio gli arriverà e chiarirà il senso della sua fatica.

Noi, donne e uomini di oggi, siamo come quel piccolo operaio cinese: immersi in un mondo pieno di dolore e fatica, di illusioni e di errori. Di questo mondo noi non comprendiamo il significato, e spesso ci sfugge anche il senso della nostra esistenza personale.
Abbiamo tuttavia una certa nostalgia delle cose spirituali, di un Dio che ci parli e aiuti a comprendere le nostre esistenze, che illumini la nostra storia tribolata, piena di dubbi e di fango come la Grande Muraglia cinese.

“A te, proprio a te, l'imperatore ha inviato un messaggio”, ci dice Franz Kafka, incoraggiandoci a non trascurare questa nostalgia, questa nostra attesa delle cose vere e profonde, delle cose dello spirito.

Diverso è il discorso che l'apostolo Paolo invia alla chiesa di Corinto: il suo non è un messaggio intriso di malinconica nostalgia, che rinvia a un futuro incerto, bensì un annuncio che trasmette una certezza.

Noi, lettori e lettrici di Kafka, o quantomeno donne e uomini simili all’operaio cinese del suo racconto, basiamo le nostre nostalgie spirituali sugli immensi fallimenti del ventesimo secolo.
Il secolo era nato accompagnato da tre grandi attese, legate agli sviluppi della tecnica, alla fede nella nazione, ai cambiamenti generati dalla rivoluzione. Ma poi le cose hanno preso una direzione che non era quella auspicata.
La tecnica ha prodotto, accanto a innegabili frutti positivi, le armi di distruzione di massa – dai gas del primo conflitto mondiale all’atomica –, sta provocando la crisi ambientale, e ora ci propone l’incognita dell’intelligenza artificiale, del controllo totale delle nostre attività.
Il nazionalismo ha prodotto Auschwitz, ha buttato la bomba atomica, e continua ad alimentare contrapposizioni, tensioni e guerre micidiali.
La rivoluzione, che prometteva di dare vita a un “uomo nuovo”, ha prodotto lo spaventoso “arcipelago gulag”, narrato dagli scrittori Alexander Solgenitsin e Varlam Salamov, i campi di sterminio di Pol Pot in Cambogia, i lager cinesi dove oggi sono rinchiusi gli uiguri.

Le attese d’inizio Novecento sono state deluse e siamo entrati nel 21. secolo appesantiti dalla consapevolezza dei fallimenti dell’umanità.
Amareggiati, perplessi e in cerca di punti di riferimento, abbiamo ricominciato a parlare dello spirito, della spiritualità.
La spiritualità è tornata di moda: la cerchiamo nelle forme più insolite e a volte bizzarre, e quanto più esotica è una verità, tanto più essa ci sembra attraente.
A Coira, nell’ambito di una giornata di studio organizzata recentemente dalla chiesa riformata cantonale, lo studioso delle religioni Georg Otto Schmid, direttore del centro di documentazione RelInfo, ha parlato di oltre mille movimenti e organizzazioni presenti in Svizzera, di centinaia di “guru” che diffondono messaggi caratterizzati da molta superficialità e di una religiosità che insegue sempre nuove e mutevoli tendenze.

Se ora ci volgiamo al messaggio dell'apostolo Paolo, dobbiamo riconoscere che in ciò che annuncia troviamo una risposta molto chiara, che non rinvia a una nostalgia, a un annuncio incerto, bensì a una certezza: il messaggio che noi cerchiamo è già arrivato, la lettera a noi indirizzata ci è già stata recapitata.
Il messaggio ci è stato mandato mediante Gesù di Nazareth, il maestro dolce e umile di cuore. Questo Gesù è il messaggio di Dio per l'umanità dispersa e sofferente.

Si tratta innanzitutto di un messaggio di perdono e di guarigione, ma è anche l’annuncio di un compito per la vita. Gesù fa di noi dei portatori e delle portatrici del suo messaggio. L’apostolo Paolo lo dice con una immagine inequivocabile: “Voi siete una lettera di Cristo”. Chi crede in Cristo diventa portatore e portatrice del suo messaggio, in parole e in atti.

Chi crede in Cristo non può fare a meno di parlare del perdono e della liberazione ricevuti. Ma allo stesso tempo non può non fare della propria esistenza, del proprio modo di vivere, del modo in cui prende le proprie decisioni, degli atti che compie, un riflesso della grazia di Dio. In questo senso, ciascuno e ciascuna di noi è chiamato e chiamata a diventare, nel dire e nel fare, una lettera di Cristo.

Diamo dunque retta a Kafka, limitandoci ad attendere, pieni di incerta malinconia, una lettera che potrebbe forse giungerci un giorno? O diamo ascolto all’apostolo Paolo, il quale ci dice che la lettera è già arrivata, la possiamo aprire, leggere, rileggere e trarne fin da ora, con l’aiuto dello Spirito, ispirazione e pace per la nostra esistenza quotidiana?