Dio contraddice il nostro sconforto
In quei giorni. Ezechiele disse: «La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?”. Io risposi: “Signore Dio, tu lo sai”.
Mi disse: “Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: ‘Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti’. Perciò profetizza e annuncia loro: ‘Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò” (Ezechiele 37,1-3.11-14)
La scena descritta dal profeta Ezechiele è potente, è un’immagine che rimane scolpita nella memoria: la visione della valle delle ossa secche.
Per comprenderne il significato, dobbiamo collocarci nello scenario in cui Ezechiele riceve la sua rivelazione. Il popolo d’Israele è in esilio a Babilonia, lontano dalla propria terra, privato del tempio, delle sue istituzioni e della sua identità. È un popolo spezzato, affranto, che si sente abbandonato da Dio e senza futuro. La valle piena di ossa secche rappresenta, allora, la condizione di disperazione collettiva, il senso di morte e di fallimento che attraversa il cuore delle persone, delle famiglie, della comunità in esilio.
Il Signore conduce Ezechiele in mezzo alla valle, lo fa camminare tra le ossa, lo pone di fronte alla realtà così com’è, senza illusioni. E gli rivolge una domanda: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?” È una domanda che mette alla prova la fede. Ezechiele risponde con umiltà: “Signore Dio, tu lo sai”. Non osa dire di sì, perché la morte appare definitiva; non dice nemmeno di no, perché sa che Dio può tutto. La risposta di Ezechiele diventa allora una preghiera di affidamento.
Ma guardiamo più da vicino questo testo. Avete sicuramente notato il grande contrasto che c’è in questi versetti tra quello che dice il popolo d’Israele esiliato a Babilonia e quello che dice Dio per mezzo del suo profeta.
Il popolo dice: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti” (v. 11), cioè, siamo morti, morti dentro anche se vivi fuori, vivi in apparenza, ma in realtà morti.
Dio invece dice: “Io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete” (vv.12-13).
Si tratta di due discorsi diametralmente opposti. Dio dice il contrario di quello che diciamo noi, che spesso descriviamo la nostra situazione in modo simile a quanto fatto dagli esiliati in Babilonia. Ma Dio ci contraddice. E meno male che ci contraddice. Meno male che pensa e dice il contrario di quello che pensiamo e diciamo noi. Meno male che i pensieri di Dio non sono come i nostri pensieri e le sue vie non sono come le nostre vie (Isaia 55,8).
Dio contraddice il nostro sconforto, non ci permette di essere demoralizzati e di piangere su noi stessi. Che Dio ci contraddica è la nostra salvezza, è la luce nella nostra notte, la forza nella nostra debolezza. Aggrappiamoci dunque alla parola che Dio ci rivolge: “Voi rivivrete”. Questa è la parola che vale, la parola che conta.
Ma una domanda molto seria si pone: siamo veramente in grado di ascoltare questo messaggio? Abbiamo veramente il coraggio di esporci al vento di Dio che soffia sulle ossa secche, sulle speranze deluse, sul popolo sconfitto, sulla chiesa depressa? Siamo pronti a lasciarci contraddire da Dio? Siamo pronti a incontrare l’energia vitale di Dio, la sua presenza che risveglia, risana, restituisce dignità e futuro?
Il messaggio di Ezechiele non riguarda solo la rinascita storica d’Israele. Parla a ciascuno di noi, a ogni chiesa, a ogni comunità che attraversa stagioni di aridità, di crisi, di scoraggiamento. Quante situazioni nelle nostre famiglie, nel lavoro, nella società, sembrano senza speranza: relazioni spezzate, sogni infranti, giustizia che sembra lontana, guerre, solitudini. Quante volte diciamo: “Le nostre ossa sono aride, la nostra speranza è svanita, siamo perduti!”…
Non lo so, sorelle e fratelli, se siamo pronti. Eppure, sono certo che è di questo che abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di sentirci dire di nuovo che non esiste deserto che Dio non possa irrigare, né morte dalla quale non possa far scaturire vita. Abbiamo bisogno di essere riportati in vita, abbiamo bisogno che Dio risusciti la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore.
Risurrezione della fede. Un solo esempio. In questi ultimi decenni si è messa in dubbio l’onnipotenza di Dio. Si è detto: Dio non è onnipotente, perché se lo fosse non avrebbe permesso e non permetterebbe il male, la distruzione, lo sterminio.
L’argomento sembra inattaccabile. Non so che cosa ne pensate. Mi limito a chiedere: chi non crede più all’onnipotenza di Dio, crede almeno ancora alla sua potenza? Crede ancora, come credeva Abramo, “che Dio è potente da far risuscitare i morti” (Ebrei 11,19)?
E quando ripetiamo il Padre Nostro, quando diciamo: “Tuo è il regno, tua la potenza, tua la gloria”, che cosa diciamo? E crediamo in quello che stiamo dicendo? Ma allora, in che Dio crediamo: in un Dio potente, o in un Dio impotente?
Non è forse il caso di chiedere a Dio di risuscitare la nostra fede, così che crediamo nella sua potenza che fa rivivere i morti? Di affidarci a Dio che sa e può far rivivere anche ciò che appare senza vita?
Risurrezione della speranza. Un solo esempio. Che cosa speriamo veramente? Cose possibili, o cose impossibili? Se speriamo solo cose possibili, non otterremo neppure quelle. Non inganniamoci: la speranza cristiana è speranza in ciò che sembra impossibile. Ecco, dunque, che dobbiamo chiedere a Dio di risuscitare la nostra speranza, affinché osiamo sperare l’impossibile.
Risurrezione dell’amore. Anche qui, un solo esempio. Nel libro dell’Apocalisse, scritto nel primo secolo della nostra era, c’è una parola che è rivolta a una piccola comunità cristiana: “Io conosco le tue opere e la tua fatica e la tua costanza […] Ma ho questo contro di te – dice Gesù – che hai abbandonato il tuo primo amore (Apocalisse 2,2.4).
Qual è questo primo amore? È l’amore per Dio, che era il primo, ma poi è diventato il secondo, poi il terzo, poi il quarto, poi, forse, l’ultimo. Un po’ come spesso facciamo, o abbiamo fatto, anche noi, oggi.
Ecco, dunque, che dobbiamo chiedere a Dio di risuscitare il nostro amore per lui, affinché esso torni ad essere il primo nella nostra vita.
Ora, lo avrete certamente intuito: ammettere che abbiamo bisogno di essere contraddetti da Dio, di esporci al suo Spirito, è un’operazione rischiosa. C’è il rischio di incontrarlo davvero quel Dio che trasforma la vita dei singoli, la nostra vita, e la vita della chiesa, che risuscita le ossa secche. C’è il rischio che il vento di Dio soffi davvero su di noi e ci ridìa davvero la vita.
Ma è proprio per questo che siamo qui: per correre questo rischio, anzi per andargli incontro e immergerci in esso. Per essere almeno sfiorati dal suo vento, dal vento dello Spirito, che suscita e risuscita la fede, suscita e risuscita la speranza, suscita e risuscita l’amore.
Che il Signore ci accompagni nelle nostre valli e ci doni il coraggio di credere nella resurrezione ogni giorno, per noi stessi, per chi ci è affidato e per il mondo intero. Amen.